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Questione-Sterling in pillole (dando per scontato che la voce sia sua per ovvi motivi logici):
Piaccia o no, è un fatto di estrema rilevanza. Che questo sia “giusto” o meno è ormai già secondario. Non è necessario parlare di un fatto perchè ne parlano tutti, sia ben chiaro. Ma quella registrazione tocca un nervo scoperto e non può comunque più essere messa rapidamente nel dimenticatoio. C’è un elefante nella stanza, e si chiama razzismo. Sperare di farlo scomparire dando la colpa ai media o ai social network non aiuterà chicchessia. Ovvio, perfino io capisco che non saranno tavole rotonde e hashtag a permetterci di superare i pregiudizi. Il che però non autorizza a minimizzare, pratica che oltretutto risulterebbe comica per i motivi appena spiegati. Doc Rivers ha sposato una donna bianca, e la sua casa di San Antonio nel 1997 è stata incendiata da sconosciuti per motivi che si ritengono legati al razzismo. Blake Griffin, figlio di una coppia mista, è stato spesso insultato con epiteti irripetibili da “tifosi” avversari. Matt Barnes, altro figlio di coppia mista, ha sentito sulla propria pelle a Del Campo High School il sapore acre del razzismo. C’entra con le parole di Sterling? Sì e no. Ma perdere l’occasione di ragionare seriamente sull’argomento e forse fare un passo avanti, per quanto minimo, è impraticabile e improponibile.
Che i media o chiunque altro “ci azzuppi” non cambia la sostanza. E non la cambiano neppure le circostanze eventualmente oscure di registrazione/diffusione delle parole di Sterling e/o la moralità, gli interessi privati e la eventuale disonestà intellettuale di Mrs. Viviano. La sostanza è chiara e limpida: c’è un proprietario NBA e datore di lavoro che si presenta come fortemente connotato da razzismo. Si può pensare “affari suoi”, si può pensare “lui è così, io no”. Ma quella voce induce tutti a riflettere su un tema difficile e complesso. Non per sentirsi in colpa a prescindere, ma per capire meglio e di più. Per non accontentarsi della vocina che dice alla Razzi “fatti li c—i tua”.
Fare il lavoro che faccio mi è sempre piaciuto. Mai come in questi playoff però quando comincio una telecronaca entro in un Nirvana personale, e per due ore godo della sfida intellettuale del provare (spesso con miseri risultati) a capire il massimo possibile di questo meraviglioso gioco e raccontarlo a chi pazientemente ascolta. Mi scordo di tutto, bene e male, cose importanti e fesserie. Ed è bellissimo. Lo dico perchè sono il primo che istintivamente pensa “ma chi se ne frega di un ottantenne, che poi lo abbiamo sempre saputo che era così e nessuno ha mai detto una sillaba! Ma godiamoci ‘sti playoff e a c—o tutto il resto”. Ho paura che però che non sia così facile.
Alzi la mano chi, più o meno reprimendolo, non ha fatto questo ragionamento: però gli afro-americani di stanza a Playa Vista non si fanno problemi nell’incassare i quasi 66 milioni di assegni annuali che Sterling firma quale appannaggio per le loro prestazioni.. Se istintivamente il nostro pensiero corre lì, è perchè ancora qualcosa non funziona. E non consolano gli altrui pregiudizi, ivi inclusi quelli (sicuramente presenti e comprovati) delle minoranze etniche.
Dal punto di vista dell’NBA, come sempre, è un problema con molte sfaccettature. Solo un ipocrita potrebbe negare che le due più importanti sono il mantenimento di una relazione positiva con la parte numericamente più rilevante della propria forza-lavoro e la soluzione migliore per chi finanzia l’attività (leggi spettatori, sponsor, TV). Lo dico perchè credo che sia vero e perchè non sono interessato a chiedere alcuna punizione esemplare ad un ente non governativo che ha indubbio e legittimo scopo di lucro. Quando avremo una decisione la commenteremo, ma non sarà l’entità della sanzione la parte più interessante. Per i motivi di cui sopra, è presumibile che ci sarà più attenzione al riguardo in futuro, il che è bene. Ora sta a noi ragionare, possibilmente non dei dettagli più o meno pruriginosi (e squallidotti) della vicenda. Non dell’impatto su gara 5 e sui playoff dei Clippers. Non di Sterling. Ma di quell’elefante, sognando che domani nella stanza non ci sia più.